domenica 17 ottobre 2010

La sentenza della Corte Costituzionale apre nuove prospettive di tutela

Di Marco Gattuso (Giudice presso il Tribunale di Reggio Emilia, intervento pubblicato su "Politeia, rivista di etica e scelte pubbliche")

La sentenza della Corte Costituzionale, pur tra luci ed ombre, rappresenta una svolta storica sotto vari profili. Con la proposizione dell'eccezione di incostituzionalità si è prodotto, innanzitutto, un vero e proprio ribaltamento del dibattito in corso: non si discute più se la Costituzione italiana vieti il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali, ma se ed in che termini la Costituzione imponga tali diritti. In secondo luogo, dalla lettura della decisione si evince l'affermazione della rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, che già di per sé configura un passaggio cruciale per il nostro ordinamento [1]. Da oggi non avrà più senso discutere del significato dell'espressione "orientamento sessuale", come inopinatamente fatto dal nostro Parlamento solo pochi mesi orsono [2], né sarà più possibile mettere in dubbio la necessità di legiferare in materia, poiché, come evidenziato dalla Consulta, il diritto al riconoscimento delle unioni omosessuali è sancito dall'art. 2 della nostra Costituzione [3]. Inoltre, la Corte afferma che tale riconoscimento giuridico "necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia" e, dunque, dopo la sentenza non saranno più sufficienti riforme dirette alla tutela di limitati diritti dei singoli membri della coppia senza riconoscimento giuridico dell'unione omosessuale [4].

L'affermazione della natura costituzionale del diritto al libero sviluppo della persona anche nell'ambito della coppia omosessuale, inoltre, non potrà non avere un impatto nell'evoluzione della nostra giurisprudenza, ad esempio in materia di espulsione verso quei Paesi che perseguitano gli omosessuali impedendo di manifestare apertamente l'affettività tra due persone dello stesso sesso [5]. La rilevanza costituzionale della coppia omosessuale apre, inoltre, anche prima d'ogni intervento del Legislatore, nuove prospettive alla cd. via giudiziaria per i diritti delle coppie gay, ove si tenga conto d'un ulteriore passaggio: in attesa che il Parlamento adotti una disciplina organica, la Corte Costituzionale si impegna ad assicurare da subito il proprio controllo ogni qualvolta "in specifiche situazioni sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale". Poiché, come noto, un giudice può promuovere una questione di illegittimità costituzionale soltanto nel caso in cui la questione non possa essere risolta già attraverso un'interpretazione adeguatrice della norma, il giudice, innanzi ad una coppia che chieda tutela e che a suo avviso necessiti d'un trattamento omogeneo a quello d'una coppia coniugata, dovrà applicare direttamente la normativa prevista per la coppia sposata, attraverso una interpretazione analogica, evolutiva, costituzionalmente orientata della norma, e solo se tale interpretazione non sia possibile dovrà ricorrere alla Corte Costituzionale perché verifichi se la disparità di trattamento sia legittima. Bisognerà verificare, innanzitutto, se la coppia omosessuale esiste e se ha carattere di stabilità analogo ad una coppia sposata. Da questo punto di vista assumono rinnovata importanza le iscrizioni all'anagrafe delle coppie omosessuali come famiglia anagrafica e l'iscrizione nei registri delle coppie di fatto che sono stati già istituiti in molti comuni italiani. Verificato che una coppia omosessuale è convivente e stabile, il giudice non potrà negare la necessità di trattamento omogeneo tra unione omosessuale e coppia sposata sul mero rilievo che la prima non è sposata, in quanto la Corte ha affermato espressamente la necessità di verificare tale omogeneità proprio tra unione gay e coppia coniugata. Escludere dunque tale comparazione sulla base della mera mancanza del matrimonio sarebbe come negare in radice la valutazione richiesta dalla Corte Costituzionale. Sarà dunque d'estremo interesse verificare come si svilupperà la giurisprudenza italiana nel prossimo periodo e che criteri elaborerà al fine d'accertare tale "necessità di trattamento omogeneo", tanto nei casi, sempre più numerosi, di coppie omosessuali che hanno figli, che in tutte quelle situazioni in cui la presenza o meno di figli non assuma specifica rilevanza [6].

A ciò deve aggiungersi che nel prossimo periodo il percorso verso l'uguaglianza tra coppie omosessuali e coppie eterosessuali sposate sarà presidiato non solo dalla nostra Corte Costituzionale ma anche dai giudici di Lussemburgo e di Strasburgo. Il quadro europeo, infatti, è decisamente mutato negli ultimi anni, sino alla recentissima sentenza con la quale la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, affrontando anch'essa per la prima volta la questione dei matrimoni gay [7], ha riconosciuto finalmente che le coppie omosessuali sono famiglia, con un'affermazione che in Italia appare persino clamorosa [8]. La cosa non deve sorprendere, poiché in Europa la questione dei diritti delle unioni omosessuali è considerata come un tipico tema di diritti civili e di libertà di tipo tradizionale, tant'è che sul loro riconoscimento pubblico si registra ormai il consenso delle maggiori forze politiche, tanto di destra che di sinistra [9], e che la questione non è stata affrontata con legge organica soltanto in Grecia e in Turchia, oltre che in alcuni Paesi ex comunisti [10], ancora indietro nel percorso di adeguamento agli standard democratici di stampo occidentale.

Alla domanda se l'interpretazione della Costituzione italiana debba spingersi sino al punto di imporre anche l'apertura dell'istituto del matrimonio ai gay, la Corte ha risposto – per il momento – di no. Questa risposta non è una sorpresa, probabilmente era ampiamente nel conto anche per coloro che hanno proposto l'iniziativa giudiziaria.

Nel dire di no, la Corte sostiene che le diverse modalità di tutela delle unioni omosessuali sono rimesse a scelte discrezionali del Parlamento [11]. In Europa si rinvengono in effetti discipline differenti che possono ricondursi a quattro diverse opzioni [12]: 1) matrimonio tra coppie di opposto o dello stesso genere (sette Paesi [13]); 2) unioni omosessuali registrate cui si applica la disciplina del matrimonio (attualmente due Paesi [14]); 3) unioni omosessuali registrate con una normativa ad hoc (sette Paesi [15]); 4) registrazione delle coppie sia etero che gay con diritti garantiti da una normativa specifica (quattro Paesi [16]). La Corte ci ha detto che il Parlamento può scegliere tra le diverse opzioni, mentre dopo la sentenza si dovrà ritenere illegittimo non riconoscere nulla, e, come detto, non ci si potrà limitare a garantire diritti ai singoli membri della coppia senza un riconoscimento giuridico dell'unione.

La Corte ha comunque evitato ogni riferimento alla nozione di diritto naturale, come era stato invece chiesto da più parti e, anzi, ha colto l'occasione per dire che la nozione di famiglia recepita e protetta dalla Costituzione, lungi dall'essere scolpita una volta per tutte, è in continua evoluzione. La Corte, inoltre, ha evitato di evocare differenze ontologiche tra coppie omo ed eterosessuali, limitandosi ad affermare che "le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio" mettendo dunque in relazione una realtà sociale (le coppie omosessuali) con un istituto giuridico (il matrimonio) e non con le unioni eterosessuali, così da rimarcare esclusivamente il mancato accesso all'istituto del matrimonio. Non si può ritenere, in particolare, che la Corte abbia inteso indicare una differenza ontologica tra coppie omosessuali ed eterosessuali ove fa un fugace riferimento alla "finalità procreativa" del matrimonio atteso che tale argomento pare richiamato dalla Corte soltanto al fine di ricostruire l'intenzione originaria del Costituente [17]. La Corte non ha richiamato la necessità di difendere la famiglia tradizionale né ha sostenuto che l'apertura del matrimonio ai gay minaccerebbe le famiglie eterosessuali, evitando dunque ogni richiamo ai tanti argomenti utilizzati nella polemica contro i diritti degli omosessuali. La Corte si è limitata a dire che la nozione di matrimonio come unione tra un uomo ed una donna e non tra persone dello stesso sesso era data per presupposta nel 1948, quando fu scritta la Costituzione, e non può essere cambiata per via ermeneutica. Si tratta di un'argomentazione che colpisce per la sua debolezza e non può dubitarsi che farà molto discutere. Chi scrive ritiene che ad un approfondimento la stessa risulti francamente errata e che col tempo sarà superata [18]. Da questo punto di vista, la sentenza – che, vale la pena ricordarlo, è la prima sull'argomento – segna solo l'inizio d'un percorso.

Secondo alcuni, la Corte avrebbe inteso affermare che neppure il Legislatore potrebbe cambiare il codice civile aprendo il matrimonio ai gay [19]. È in corso un dibattito sul punto. Per un orientamento, la Corte si sarebbe accodata all'opinione che vede nella parola "matrimonio" un concetto immodificabile, neppure per volontà popolare. Il Parlamento, dunque, non potrebbe ridefinire l'istituto giuridico del matrimonio civile e la competenza del Legislatore dovrebbe escludersi anche per il futuro, nonostante l'evoluzione del costume e della nozione sociale di famiglia, i mutamenti nelle conoscenze scientifiche [20], la stessa evoluzione della nozione di famiglia nella lingua [21] e nel linguaggio giuridico anche nel contesto internazionale [22], i cambiamenti già avvenuti nel diritto degli altri Paesi a noi affini [23] e nello stesso diritto europeo [24]. Questa posizione sembra fondata su un solo argomento: si dovrebbe ritenere che la materia è sottratta al Legislatore perché la Corte rileva che la questione, rispetto agli artt. 3 e 29, è infondata [25]. Tuttavia, la Corte in altro passaggio dichiara che rispetto all'art. 2 ed all'art. 117 la questione è inammissibile - che nel linguaggio utilizzato dalla Corte significa che la materia è di competenza del Parlamento - e dice espressamente che la materia è riservata al Legislatore (in quanto la questione se l'art. 2 imponga il "diritto di sposarsi" anche per i gay appare "diretta ad ottenere una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata"). Non v'è dubbio che la Corte sia stata ambigua. In un passaggio reputa la questione inammissibile ed in un altro infondata. Sussistono nondimeno molti più elementi per sostenere che la Corte lasci libertà al Parlamento [26]. In tutta la motivazione, la Corte non introduce infatti alcun elemento espressamente diretto a condizionare la discrezionalità del Legislatore, né sarebbe conforme alla sua pregressa giurisprudenza in materia familiare coartare, in un senso o nell'altro, la volontà parlamentare – a maggior ragione in forza di una lettura meramente "originalista" della Costituzione. Dalla lettura della sentenza non emerge alcun argomento per sostenere che l'apertura del matrimonio violi diritti od interessi di terzi e della famiglia eterosessuale e che dunque si contrapponga alla ratio di garanzia dell'art. 29. L'ancoraggio proposto dalla Corte all'intenzione soggettiva dei costituenti pare strettamente connesso alla necessità di prevenire interpretazioni "creative", d'evitare cioè fughe in avanti giurisprudenziali, di salvaguardare il principio di tripartizione dei poteri, come potrebbe già desumersi dall'indicazione per cui "questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica". Alla Corte, peraltro, è stato chiesto se l'art. 29 imponga il riconoscimento del matrimonio tra omosessuali, mentre non è stato chiesto se l'art. 29 possa consentire tale apertura. Sarebbe allora certamente paradossale che al disconoscimento della Corte di interpretazioni "creative" del giudice consegua una limitazione per lo stesso potere legislativo, imposta... proprio per via giudiziaria! Si deve sottolineare, inoltre, come la lettura della nostra Costituzione nel senso di un divieto del Legislatore sarebbe del tutto peculiare nel panorama europeo ove "nessun parlamento nazionale al fine di ampliare il contenuto di tale istituto, ha ritenuto di dovere modificare la costituzione" [27]. Bisognerà considerare, ancora, che la Corte Costituzionale non ha fondato la sua decisione sull'espressione "società naturale", che non tiene in alcun conto, ma sul solo termine "matrimonio" che nella nostra Carta non contiene alcun riferimento all'uomo ed alla donna, a differenza della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (che recita "a partire dall'età minima per contrarre matrimonio, l'uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi", cfr. art. 12) la cui formulazione non ha tuttavia impedito alla Corte di Strasburgo di ritenere di recente che tale norma indichi i soggetti titolari del diritto a contrarre matrimonio (il diritto, cioè, deve essere riconosciuto a ogni uomo e a ogni donna), senza limitare necessariamente la facoltà di scegliere liberamente il partner [28]. Va detto, infine, che i giudici della Corte di Strasburgo nella loro motivazione evidenziano di non potere imporre ai Paesi aderenti l'apertura del matrimonio alle coppie dello stesso sesso poiché sul punto manca allo stato una "base comune nelle legislazioni dei Paesi aderenti" così che si deve intendere che tale evenienza non potrebbe escludersi per il futuro. Ne consegue che un'interpretazione forzata della nostra Costituzione, probabilmente contro l'intenzione degli stessi interpreti che oggi la propugnano, la esporrebbe in futuro ad un, azzardato quanto immotivato, conflitto con gli stessi Bill of rights europei.

Note

[1] Si deve riconoscere che si tratta di un evidente successo dei promotori, in particolare della campagna di promozione civile ideata dall'avvocato e ricercatore di diritto privato nell'Università degli studi di Udine, Francesco Bilotta, e portata avanti dal medesimo con grande determinazione insieme all'associazione di avvocati Rete Lenford e all'associazione radicale Certi Diritti. Per un quadro generale del dibattito giuridico antecedente la sentenza in commento cfr. i fondamentali: Amore civile, dal diritto della tradizione al diritto della ragione, a cura di B. De Filippis e F. Bilotta, Milano Udine 2010 ; Le unioni tra persone dello stesso sesso - Profili di diritto civile, comunitario e comparato a cura di F. Bilotta Milano-Udine, 2008; M. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra disciplina straniera e diritto interno, Milano 2005; M. Bonini Baraldi, La famiglia de-genere Matrimonio omosessualità e costituzione, Milano-Udine 2010; La "società naturale" ed i suoi "nemici". Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, Torino 2010, Atti del convegno svoltosi a Ferrara proprio nell'imminenza della decisione, ove si rinvengono numerosissimi interventi di grande interesse; M. Montalti Orientamento sessuale e costituzione decostruita. Storia comparata di un diritto fondamentale, Bologna 2007; P. M. Callaro Il same-sex marriage negli Stati Uniti d'America, Padova 2006.

[2] Cfr. la questione di pregiudizialità costituzionale votata dalla Camera il 13 ottobre 2009 avverso la normativa contro l'omofobia ove si sostiene che l'orientamento sessuale "ricomprende qualunque orientamento, ivi compreso incesto, pedofilia, zoofilia, sadismo, necrofilia, masochismo eccetera", incredibilmente ignorando la nozione giuridica di orientamento sessuale già recepita dall'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali ed universalmente intesa come orientamento verso persone dell'opposto o del proprio genere.

[3] La Corte Costituzionale afferma che in forza della nostra Costituzione a tale comunità "spetta riconoscimento giuridico" e dunque individua una lacuna nella nostra legislazione chiamando il Parlamento a colmarla, seppure "nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge". Il riferimento ai "tempi" non consente di ritenere che anche l'an della tutela sia nella sua disponibilità, così come la discrezionalità è definita "piena" solo al fine di specificare il quomodo ("le forme di garanzia e di riconoscimento").

[4] In questo senso si muovevano, invece, i vari progetti di legge succedutisi negli ultimi anni (cd. DICO, DIDORE, CUS ecc...).

[5] La S.C. aveva ritenuto che non vi sarebbe pericolo di trattamento persecutorio – e dunque si potrebbe procedere all'espulsione non sussistendo il divieto di cui all'art. 19 della Bossi-Fini ("In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali") - se nella legislazione di quel Paese venga previsto come reato non "il fatto in sé" dell'omosessualità ma soltanto "l'ostentazione di tali pratiche in modo non conforme al sentimento pubblico del Paese stesso" (Corte di Cassazione Sez. 1, Sentenza n. 16417 del 25/07/2007). Come dire che in Italia lo straniero è protetto solo se nel suo Paese d'origine è vietato appartenere ad una minoranza etnica o essere ebreo o avere determinate opinioni politiche, ma non se nel suo Paese è perseguito penalmente praticare apertamente la religione ebraica o manifestare ("ostentare"?) il proprio pensiero... La rilevanza costituzionale della relazione di coppia omosessuale, d'un fenomeno dunque che necessariamente non rileva nella sola sfera interiore della persona ma ha rilevanza esterna, comporta senza dubbio garanzia di tutela, costituzionalmente imposta, anche per le manifestazioni esteriori dell'affettività omosessuale.

[6] Subentro nella locazione, gestione della crisi della coppia, ruolo del convivente nell'assistenza sanitaria e nelle decisioni post mortem, risarcimento dei danni in caso di morte... ma l'elenco è infinito e l'indagine potrà interessare tutti gli istituti ad oggi riservati alle coppie sposate.

[7] Schalk and Kopf v. Austria, 24 Giugno 2010. La CEDU ha dichiarato che il codice civile austriaco, nella parte in cui non prevede il matrimonio tra persone dello stesso sesso, non viola la Convenzione agli artt. 8, 12 e 14 in quanto la materia è di competenza dei Parlamenti nazionali.

[8] Basti pensare che solo pochi anni fa, nel 2007, il governo italiano (di centro sinistra!) negò alle organizzazioni omosessuali di partecipare alla Conferenza nazionale sulla famiglia sostenendo che le relazioni gay non sono famiglia.

[9] Dall'esame delle posizioni ufficiali dei partiti politici degli altri quattro maggiori Paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna), si rileva che tutte le forze politiche parlamentari tanto di destra che di sinistra, ad eccezione del solo Front National francese, sono favorevoli al riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali oggi sollecitato dalla nostra Corte.

[10] Ma non tutti: hanno una legge, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia e Croazia.

[11] La Corte ha ritenuto la questione "inammissibile" in quanto "diretta ad ottenere una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata". L'eventuale apertura del matrimonio implica difatti scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore, non soltanto perché le unioni omosessuali potrebbero essere tutelate con altri istituti affini al matrimonio, ma anche perché, pure nell'ipotesi di apertura del matrimonio, ben potrebbe essere esclusa l'operatività di alcune norme, come già accaduto in altri ordinamenti ad esempio in materia di filiazione, presunzione di paternità, adozione.

[12] Molti Paesi prevedono più istituti, contemplando normative sulle partnership registrate insieme al matrimonio ed alla tutela delle convivenze di fatto. Una dettagliatissima ricognizione in M. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze cit..

[13] Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Islanda, Norvegia e Svezia. In Lussemburgo, Andorra, Finlandia e Slovenia la legge è stata annunciata dal governo o è in corso d'approvazione in Parlamento.

[14] Danimarca e Finlandia, le cui normative prevedono soltanto alcune eccezioni in materia di adozioni e potestà genitoriale. Gli altri Paesi che aderivano a tale opzione sono passati negli ultimi anni al matrimonio.

[15] Regno Unito, Germania, Svizzera, Slovenia, Rep. Ceca, Austria, Ungheria.

[16] Francia, Lussemburgo, Andorra, Irlanda. In Croazia sono riconosciuti diritti alle coppie di fatto omosessuali.

[17] Conviene che con l'accenno alla "finalità procreativa" la Corte abbia inteso "semplicemente ricostruire, ancora, la volontà del costituenti", Dal Canto La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale, in Foro it. 2010, I, 1373. Si deve considerare, in effetti, come la connessione tra matrimonio e procreazione, che pure è stata al centro del dibattito dottrinale e delle stesse argomentazioni dei giudici a quibus, non sia stata sviluppata in alcun modo dalla Corte e apparirebbe argomento assai fragile se fosse riferito alla realtà sociale contemporanea ed all'attuale quadro normativo.

[18] Sul punto mi si consenta di rimandare a M. Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso in Famiglia e diritto, 2010, 656. Sulle ragioni che dovrebbero indurre a ritenere costituzionalmente illegittimo il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, cfr. anche Costituzione e matrimoni fra omosessuali, in Il Mulino 2007, 452; Appunti su famiglia naturale e principio di uguaglianza (A proposito della questione omosessuale) in Questione Giustizia 2007, 261 (consultabile anche in www.personaedanno.it) e Il dialogo tra le corti in La società naturale ed i suoi nemici, Torino 2010, p. 159 (consultabile anche in www.forumcostituzionale.it).

[19] Si avrebbe anche in Italia un esito analogo a quei quindici Paesi ove le Costituzioni definiscono il matrimonio come unione tra uomo e donna impedendo ai Parlamenti nazionali una ridefinizione del matrimonio con legge ordinaria (Congo, Kenya, Ruanda, Uganda, Honduras, Bielorussia, Ecuador, Lettonia, Lituania, Polonia, Bielorussia, Moldavia, Montenegro, Serbia e Ucraina; fonte: Wikipedia, LGBT rights by country or territor).

[20] L'omosessualità è stata cancellata dal DSM (Diagnostic and statistical manual of mental disorders) ed è stata definita una "variante del comportamento umano" nel 1973.

[21] Tanto il Webster's che l'Oxford English Dictionary richiamano l'unione tra due persone dello stesso sesso sotto la voce "matrimonio".

[22] Si è già detto del diffondersi del consenso anche tra le maggiori forze politiche continentali. La nozione gender-neutral di matrimonio è sostenuta da più sentenze delle Corti supreme di diversi Stati americani (Massachusetts, California, Connecticut, Iowa) oltre che dalle corti costituzionali del Sudafrica, Canada, Belgio e Portogallo. Di recente i giudici americani (Corte distrettuale del Massachusetts, 8 luglio 2010, che dichiara l'illegittimità del Defense of Marriage Act e Corte distrettuale del Nord California Perry v. Schwarzenegger del 4 agosto 2010 che dichiara l'illegittimità della Proposition 8) sono arrivati ad aprire un vero e proprio conflitto, dagli esiti assai incerti, con il potere legislativo (persino quando esercitato mediante referendum popolare!) che aveva definito espressamente il matrimonio quale unione tra uomo e donna.

[23] Il matrimonio è stato ridefinito in senso inclusivo in Argentina, Belgio, Canada, Islanda, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Sudafrica, Spagna, Svezia ed inoltre in Connecticut, Iowa, Massachusetts, New Hampshire, Vermont, Washington (District of Columbia) e Città del Messico.

[24] Con l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali il legislatore europeo ha compiuto una scelta storica avendo utilizzato i termini "sposarsi" e "famiglia" senza alcuna specificazione proprio al fine di non escludere il matrimonio per le coppie omosessuali. Anche la Corte europea di Strasburgo, per canto suo, ha modificato la propria interpretazione della nozione di matrimonio annunciando che "la Corte non considererà più che il diritto di sposarsi sancito dall'art. 12 debba essere limitato in ogni circostanza al matrimonio tra persone di sesso opposto" (Schalk and Kopf v. Austria, cit.).

[25] Dal Canto La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale, in Foro it. 2010, I, 1373. L. D'Angelo, La Consulta al Legislatore: questo matrimonio nun s'ha da fare, Altalex, 19 aprile 2010; G. M. Salerno, Il vincolo matrimoniale non è suscettibile di interpretazioni creative, in Guida al diritto, Famiglia e minori, maggio 2010, 46; S. Spinelli, Il matrimonio non è un'opinione Forum di Quaderni Costituzionali, 2010, www.forumcostituzionale.it; P. A. Capotosti Matrimonio tra persone dello stesso sesso: infondatezza versus inammissibilità nella sentenza n. 138 del 2010 in Quaderni costituzionali 2010, 361.

[26] L'approdo d'una Costituzione che non vieta e non impone appare conforme all'orientamento che, in un'ottica comunque storicistica, ravvisa nell'art. 29 una norma in bianco che rimanda alla definizione normativa di matrimonio, qual è indicata, attualmente, nel codice civile, su cui cfr. Pignatelli, Dubbi di legittimità costituzionale sul matrimonio, 3, Forum di Quaderni Costituzionali, 2010, in www.forumcostituzionale.it 14; v. anche A. Schuster Riflessioni comparatistiche sull'art. 29 della Costituzione italiana in Le unioni tra persone dello stesso sesso cit., 185.

[27] L'osservazione è di N. Pignatelli, Nozione di matrimonio e disciplina delle coppie omosessuali in Europa, in Foro it., 2005, V, 260 ss.

[28] Schalk and Kopf v. Austria, cit. . Anche la formulazione dell'art. 32 della Costituzione spagnola, che contiene un riferimento diretto all'uomo ed alla donna (art. 32: "el hombre y la mujer tienen derecho a contraer matrimonio con plena igualdad jurídica"), non ha impedito al Legislatore un'interpretazione evolutiva.

giovedì 5 agosto 2010

Welcome To The Hotel California

Comunicato stampa
Giovedì 05 Agosto 2010

MATRIMONIO GAY. CALIFORNIA, DIVIETO E' INCOSTITUZIONALE:
INCAPACITA' DELLA POLITICA OBBLIGA INTERVENTO MAGISTRATURA.

Commento alla sentenza del tribunale californiano
che ha stabilito incostituzionalità del divieto alle nozze gay.

Il giudice federale della California Vaughn R. Walker con la sentenza pronunciata ieri s'è espresso contro il divieto ai matrimoni gay, sancito tramite il referendum noto come "Proposition 8". Il referendum era stato promosso da una coalizione di confessioni religiose.

Secondo il giudice Walker, impedire agli omosessuali di sposarsi è discriminatorio. La Proposition 8, si legge nel pronunciamento, è "incostituzionale" e non fornisce al divieto "alcuna base razionale", ma si limita ad affermare perentoriamente che "le coppie eterosessuali sono superiori alle coppie omosessuali". "La sola disapprovazione morale è una base impropria per negare diritti a omosessuali e lesbiche", continua il giudice, che aggiunge: "è evidente che le concezioni morali e religiose sono l'unica base per credere che le coppie dello stesso sesso siano diverse da quelle eterosessuali". Come dire: uno stato di diritto non può farle proprie.

Walker, rilevando che l’opposizione ai matrimoni gay ha una forte motivazione religiosa, afferma di contro che "l'interesse di uno Stato nel momento in cui mette in atto una norma deve essere per sua stessa natura laico" e che "lo Stato non ha interesse nel rafforzare le credenze morali o religiose senza che ciò sia accompagnato da un proposito laico". Vietare i matrimoni gay è dunque "un artefatto di un tempo in cui i generi erano considerati come caratterizzati da diversi ruoli nella società e nel matrimonio", un tempo "che è passato", sottolinea Walker.

Ancora una volta - così come in Italia con la recente sentenza 138/2010 - l'incapacità della politica di legiferare laicamente a favore dell'uguaglianza di tutti i cittadini e le cittadine di fronte alla legge, sancita dalla nostra Costituzione, ha obbligato la magistratura a intervenire.

Il successo del movimento lgbt californiano è una notizia che scalda i cuori di speranza e le mani di voglia di fare, perché la battaglia per la parità dei diritti riparte con slancio lì dov'era iniziata. E' proprio il caso di esclamare il celebre verso della canzone degli Eagles: “Welcome To The Hotel California”.

lunedì 2 agosto 2010

LA RIVISTA "FAMIGLIA E DIRITTO" SUL MATRIMONIO GAY

MATRIMONIO GAY. PUBBLICATO COMMENTO
ALLA SENTENZA DELLA CONSULTA:
NON È NECESSARIA REVISIONE COSTITUZIONALE


La più prestigiosa rivista italiana del settore, “Famiglia e diritto”,
pubblica nel numero corrente 07/2010 un commento alla sentenza 138/2010



Il commento della rivista “Famiglia e diritto”, la più prestigiosa edizione italiana del settore, a firma di Marco Gattuso, magistrato, fa il punto della situazione sulla questione dell’accesso al matrimonio civile per le persone omosessuali, dopo la sentenza della Corte Costituzionale.

I passaggi fondamentali del commento rappresentano altrettanti punti fondamentali per la lotta all’uguaglianza.

Così leggiamo che “la Corte compie un deciso passo in avanti, individuando nella “unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, una “formazione sociale” tutelata dall’art. 2 Cost.. Si configura dunque il diritto fondamentale al libero sviluppo della persona anche nell’ambito della coppia omosessuale”. La Corte infatti “annette una specifica rilevanza costituzionale alla stessa nozione giuridica di orientamento sessuale, universalmente intesa come orientamento verso persone dell’opposto o del proprio genere e con tale accezione già recepita dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali”.

La Corte declina il contenuto di tale diritto fondamentale rilevando che “a tale unione non spetta soltanto il diritto “di vivere liberamente una condizione di coppia” ma altresì “il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Si ha qui un passaggio di portata storica, che segna il superamento d’ogni concezione volta a consumare la vocazione liberale del sistema giuridico italiano nel mero rispetto della vita privata”.

Affermando che “in forza della Costituzione a tale comunità “spetta un riconoscimento giuridico” che “necessariamente” richiede una disciplina, la Consulta individua difatti una lacuna nella nostra legislazione e chiama il legislatore a colmarla”. “L’eventuale apertura del matrimonio implica scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore”, che dunque ha piene possibilità d’azione.

“In tutta la motivazione, la Corte non introduce alcun elemento espressamente diretto a condizionare la discrezionalità del Legislatore, né sarebbe conforme alla sua pregressa giurisprudenza in materia familiare coartare, in un senso o nell’altro, la volontà parlamentare”.

“Dalla lettura della sentenza non emerge peraltro alcun argomento per sostenere che l’apertura del matrimonio violi diritti od interessi di terzi e della famiglia eterosessuale e che dunque si contrapponga alla ratio di garanzia della norma. Ne consegue che se al Legislatore ordinario è preclusa dall’art. 29 Cost. una normativa che limiti i diritti della famiglia, non deve ritenersi preclusa, invece, la ridefinizione per via legislativa della nozione di “matrimonio” in senso non limitativo ma, anzi, inclusivo”.

La Corte afferma altresì che “resta “riservata alla Corte Costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni” ove “sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. L’affermazione della sussistenza d’un diritto fondamentale conduce dunque ad assicurare tutela giuridica ogni qualvolta sia riscontrabile la necessità d’una eguale protezione”.

Quest’ultima affermazione della Corte “è di particolare impatto, posto che alla luce di tale indicazione, si dovrà ritenere che ogni giudice sia chiamato ad accertare di volta in volta se nella situazione data “sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo”, verificando preventivamente se il dispositivo favorevole alla coppia coniugata possa essere applicato anche alla coppia omosessuale”.

La sentenza della Corte, quindi, spalanca le porte alle via giudiziaria per l’ottenimento della piena uguaglianza, fatto, questo, tanto più importante quanto permane immobile il panorama politico italiano.

“È inoltre significativo che la Corte preannunci l’intenzione di porre a confronto la coppia omosessuale e la coppia “coniugata”. La notazione pare di particolare importanza, poiché sarebbe allora una mera petizione di principio negare un diritto riconosciuto alla coppia coniugale sul solo rilievo della mancanza del vincolo matrimoniale, venendosi a negare in radice proprio quella verifica in concreto postulata dalla Corte”.

“Appare a tale proposito d’un certo interesse che dalla lettura della sentenza, fatto salvo il mancato accesso all’istituto del matrimonio, la Corte non enunci alcuna disomogeneità ontologica tra affettività etero ed omosessuale”.


COMITATO "SÌ, LO VOGLIO!"
per il riconoscimento del diritto
al matrimonio civile alle persone omosessuali

Comunicato stampa
Giovedì 30 Luglio 2010

martedì 20 luglio 2010

Dopo la sentenza della Corte costituzionale il silenzio della politica

Commento dell'avv. prof. Marilisa D’Amico
Ordinario di Diritto costituzionale, Università Statale di Milano


La sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale italiana costituisce un passo determinante, anche se non definitivo, in tema di riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali e, anche, del fondamentale “diritto al matrimonio”.

Di questa decisione sta circolando una lettura riduttiva che sosterrebbe, a mio avviso sbagliando, che secondo la Corte il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso potrebbe essere raggiunto soltanto con la revisione dell’art. 29 Cost. il quale non si presterebbe ad una lettura “evolutiva”.

Questa interpretazione della sentenza n. 138 del 2010 non è accettabile, per tre ordini di motivi:

1. nell’impianto della decisione la lettura degli artt. 3 e 29 Cost., basata sull’assunto che l’originaria previsione dell’art. 29 Cost., pur conoscendo il fenomeno dell’omosessualità, ha inteso disciplinare soltanto il matrimonio fra persone eterosessuali, costituisce un punto molto debole del ragionamento. Sembra simile a quello che la Corte statuì, nella sentenza n. 421 del 1995, bocciando le cosiddette quote rosa; su quel principio sbagliato, la Corte è ritornata nella sentenza n. 49 del 2003, che costituisce una vera overruling. Similmente, nulla impedirebbe alla Corte, in futuro, di riconoscere la debolezza della sua interpretazione soltanto “storica” dell’art. 29 Cost. Con questo metro, allora, si sarebbe potuta dichiarare costituzionalmente illegittima anche la previsione del divorzio.

2. La stessa Corte costituzionale, basandosi sull’art. 2 Cost., e sull’art. 117 Cost. (reso più forte dalla recente sentenza della Corte costituzionale austriaca), ha riconosciuto non solo il valore costituzionale della “coppia omosessuale”, ma ha definito come necessario l’intervento del legislatore per una disciplina organica e si è riservata il diritto ad intervenire a correzione di tutte le specifiche violazioni di specifici diritti. Questa decisione costituisce un monito al legislatore molto forte: non si parla di facoltà, ma di necessità di intervento.

3. Il segnale, da parte della Corte, è chiarissimo: di fronte al vuoto normativo, che pone l’Italia in una situazione del tutto unica rispetto agli altri Paesi europei (Portogallo, Austria, … ma per uscire dall’Europa, anche Argentina), la Corte opportunamente rinvia al ruolo del legislatore e, dunque, della politica nel dotarsi di una disciplina organica. Sarà comunque il legislatore, nella sua discrezionalità, a decidere in ordine ad una piena equiparazione, anche nel nome “matrimonio” delle unioni omosessuali rispetto a quelle eterosessuali.

Il terreno, però, è oggetto di profonda evoluzione, come testimonia anche la recentissima decisione della Corte Europea (Schalk e Kopf v. Austria, del 24 giugno 2010). La Corte non si limita a rinviare genericamente alla politica, ma si ritaglia uno spazio di intervento dinnanzi a situazioni specifiche: questo rende il monito, a mio avviso, ancora più cogente.

In conclusione, chi cerca ancor oggi, anche in buona fede, letture ulteriori e diverse della sentenza, non fa altro che perdere tempo prezioso e ignora l’indicazione chiara e inequivocabile del giudice costituzionale: la necessità, non più procrastinabile, di una legge.

La “via giudiziaria”, nel riconoscimento e nella tutela dei diritti, non può e non deve sostituirsi alla “via politica”, ma soltanto offrire sostegno e aiuto quando quest’ultima si dimostri lenta, insufficiente o inadeguata, come sempre più spesso in Italia succede.

***

giovedì 15 luglio 2010

ARRIBA ARGENTINA!

ARGENTINA, IL MATRIMONIO GAY E’ LEGGE.
ISTITUZIONI HANNO DELIBERATO LAICAMENTE,
NONOSTANTE LE INAUDITE PRESSIONI CLERICALI.

Enzo Cucco,Giuseppina La Delfa e Maurizio Cecconi, portavoci del Comitato,
in merito alla legge approvata questa notte dal Senato della Repubblica di Argentina.


“L’Argentina, paese dove il 91% della popolazione si dichiara cattolico, s’è convertito all’alba di oggi nel primo stato del Sudamerica – il decimo nel mondo – che riconosce alle persone omosessuali il diritto al matrimonio civile e, contestualmente, alle adozioni. Il dibattito finale al Senato della Repubblica, durato oltre 15 ore, è stato trasmesso interamente dalla televisione, rappresentando un modello di discussione democratica e di decisione laica. Infatti, nonostante le inaudite pressioni delle gerarchie della Chiesa Cattolica, arrivate persino ad organizzare manifestazioni di piazza che hanno creato tensione ed incidenti, le massime Istituzioni argentine hanno deliberato tenendo presente il principio comune di uguaglianza di fronte alla legge”, così Enzo Cucco, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”.

Per Giuseppina La Delfa, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”, “la decisione dell’Argentina rappresenta un passo in avanti storico. Come ha ricordato María Rachid, rappresentante della Federazione Argentina di Lesbiche, Gay, Bisessuali e Trans (FALGBT), l’acceso al matrimonio implica anche il riconoscimento di tutti quei diritti che al matrimonio sono legati. In particolare, quello alle adozioni. L’uguaglianza di fronte alla legge è la premessa indispensabile per raggiungere l’uguaglianza sociale”.

“Un giorno dopo l’anniversario della Rivoluzione Francese, che segnò la fine del potere dell’aristocrazia e del clero, l’Argentina ci regalo una conquista di civiltà, ottenuta con uno sforzo esemplare, grazie all’impegno del movimento LGBT argentino e alle posizioni laiche della maggioranza delle forze politiche”, così Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”, che conclude: “Mentre in Argentina si apre ai matrimoni gay, in Italia siamo fermi alle esternazioni fascio-clericali di Giovanardi e del Governo Berlusconi. E’ tempo, anche per il nostro paese, di una nuova stagione di libertà e di profondo e radicale cambiamento”.


COMITATO "SÌ, LO VOGLIO!"
per il riconoscimento del diritto
al matrimonio civile alle persone omosessuali

Comunicato stampa
Giovedì 15 Luglio 2010

STEFANO RODOTA SU MATRIMONI GAY

Matrimoni gay e doveri del Parlamento
Stefano Rodotà
la Repubblica, 15 luglio 2010

In tutto il mondo l’ agenda dei diritti si compone e si scompone. Si discute della libertà di espressione su Internet. I diritti dei migranti sono al centro di un importante intervento di Obama, mentre in Europa producono manifestazioni di xenofobia e razzismo che influenzano le elezioni nazionali. La crisi economica incide sui diritti dei lavoratori, impone condizioni che violano il principio del “decent work”, della dignità del lavoro. Le ultime notizie dall’ Islanda aggiungono un altro paese a quelli che già hanno riconosciuto il matrimonio omosessuale, mentre in Italia la comunità gay sta conoscendo inedite polemiche. A queste reagisce un esponente autorevole di questo mondo, Aurelio Mancuso, affermando che «di queste beghe la comunità non vuol sentire parlare, la comunità vuole diritti», aggiungendo che si tratta di una richiesta rivolta a tutte le forze politiche, senza distinzioni. Una mossa “politicista” o una giusta sollecitazione istituzionale? Il Parlamento italiano è inadempiente, ed è bene che sia richiamato ai suoi doveri. Con una recentissima sentenza, infatti, la Corte costituzionale ha ribadito la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fonte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’ articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un “diritto fondamentale” attende il suo pieno riconoscimento.

Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costituzionalmente garantiti. Qualcuno, al Senato e alla Camera, porrà con la dovuta durezza questa domandae chiederà che si riapra almeno la discussione sulle unioni di fatto? Ma la Corte va oltre. Pur ribadendo che l’ attuale disciplina costituzionale del matrimonio non permette di ricomprendere al suo interno la disciplina delle unioni omosessuali, fa due affermazioni rilevanti. La prima è di carattere generale. Si sottolinea che le norme attuali, che vincolano il matrimonio alla differenza di sesso, non possono essere superate attraverso una interpretazione dei giudici costituzionali. Questo vuol dire che, preclusa al giudice, la via del mutamento dell’ articolo della Costituzione sul matrimonio, per renderlo compatibile con le unioni omosessuali, potrebbe essere percorsa dal legislatore. Si può obiettare che una revisione costituzionale in una materia così scottante appare improbabile. E qui interviene la seconda affermazione, che mostra come non sia corretto prospettare una incompatibilità assoluta tra il modello del matrimonio tradizionale e quello dell’ unione omosessuale. È sempre la Corte che parla: «Può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’ argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare “contiguità” tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto. Proprio perché i giudici costituzionali sono stati guidati da tanta consapevolezza, ci si poteva aspettare una attenzione maggiore per il modo in cui il tema è affrontato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea. Qui si coglie una netta discontinuità.

Nell’ articolo 21 si vieta ogni discriminazione basata sulle tendenze sessuali. E, soprattutto, nell’ articolo 9 si stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’ esercizio». La distinzione tra “il diritto di sposarsi” e quello “di costituire una famiglia” è stata introdotta proprio per consentire la costituzione legale di unioni distinte da quelle tra persone di sesso diverso, dunque anche quelle tra omosessuali. E il passo avanti rappresentato dalla Carta diventa ancor più evidente proprio se si fa un confronto con quel che dispone l’ articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’ uomo del 1950, dov’ è scritto che «uomini e donne hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l’ esercizio di tale diritto». Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento ad “uomini e donne”. Non si parla di un unico “diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’ Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – ed una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni omosessuali. In un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee guida per il legislatore. Poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporrei propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, ha pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessuali, con i quali si può dissentire su alcuni punti, ma che prospettano una conclusione assai impegnativa.

Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell’ assunzione pubblica della cura e della promozione dell’ altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il valore sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che garanzia costituzionale». Non si potrebbe dire meglio. Ma si deve aggiungere che nessuno può disinteressarsi di questo tema considerandolo affare di altri. Intervistata dal New York Times, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso». Anche la più intima tra le decisioni non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in società, dalla condizione e dai diritti di ogni altra persona, lontana o vicina che sia.

venerdì 2 luglio 2010

IL COMITATO SULLE DICHIARAZIONI DI GIOVANARDI

FAMIGLIA E' MODELLO PLURALISTICO.
UNITA' D'ITALIA MINACCIATA DALL'EVERSIONE
COSTITUZIONALE DI PDL E LEGA NORD


Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato,
in merito alle dichiarazioni del Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Carlo Giovanardi.



"Il 15 Aprile scorso la Corte Costituzionale, con l'importante sentenza n. 138/2010, ha imposto il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali. Chiarissime, in questo senso, le parole della Corte: "Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri". Le dichiarazioni del Sottosegretario Giovanardi sono da considerarsi, dunque, come parole a vanvera", così Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato, che conclude: "A minacciare l'unità della Repubblica Italiana è l'impunita eversione costituzionale del PDL e della Lega Nord. Chi, come Giovanardi, guida le Istituzioni senza conoscere le sentenze del nostro massimo organo di garanzia, è un pericoloso ubriaco al volante del Paese".


Maurizio Cecconi
+39 349 808 48 99

Comitato "Sì, lo voglio!"
per il riconoscimento del diritto
al matrimonio civile alle persone omosessuali

Comunicato stampa
Venerdì 02 Luglio 2010

giovedì 24 giugno 2010

Sabato 26 luglio 2010, ore 10
Presso la Fondazione SUDD, Corso Umberto 35, Napoli


Seminario:


“Famiglie omosessuali e diritto al matrimonio civile
alla luce della recente Sentenza della Corte costituzionale”


Il Seminario è organizzato dal Comitato nazionale “Si!, lo voglio, per il riconoscimento del diritto al matrimonio civile tra persone dello stesso sesso”, ed è rivolto principalmente ai rappresentanti dei gruppi lgbt italiani. L’intento è quello di organizzare una riflessione sulle conseguenze della recente sentenza della Corte costituzionale in merito sul tema.

Oltre ai rappresentanti delle associazioni che aderiscono al Comitato ha assicurato la sua presenza Antonio Rotelli, presidente di Avvocatura-Rete Lenford.



Per informazioni:

Enzo Cucco
347.0431401


domenica 9 maggio 2010

14 maggio 2010 a milano

L'incontro nazionale annunciato si svolgerà:

14 maggio 2010 dalle ore 11 alle ore 16
presso la sede del CIG, Via Bezzecca 3, Milano


All'ordine del giorno:

discussione in merito alla sentenza della corte costituzionale
prime riflessioni su nuove iniziative, giudiziarie e non
varie ed eventuali


La riunione è aperta ai rappresentanti delle associazioni del Comitato, agli Avvocati della Rete Lenford e agli Avvocati del Collegio che ha sostenuto le nostre ragioni di fronte alla Corte.

Per informazioni:
Enzo Cucco
347.0431401

lunedì 3 maggio 2010

MICROMEGA SU MATRIMONIO GAY

Micromega
22/4/2010

Matrimonio omosessuale, se il codice civile prevale sulla Costituzione
di Persio Tincani

La vicenda del matrimonio omosessuale in Corte costituzionale si è conclusa nel modo che in molti prevedevano, cioè con un sostanziale rigetto delle questioni di costituzionalità rimesse dalla corte d'appello di Trento e dal tribunale di Venezia. Che la decisione fosse, in questo senso, prevedibile non ha, però, nulla a che vedere con la questione in sé (il matrimonio omosessuale è compatibile con la Costituzione?) e molto a che vedere con il fatto che non dobbiamo fingerci vergini, del tipo di quelle convinte che ci sia sempre un giudice a Berlino. Che la Corte avrebbe respinto le questioni, insomma, eravamo più o meno tutti ragionevolmente certi, tanto i favorevoli al matrimonio omosessuale, ovvero la stragrande maggioranza dei giuristi italiani, quanto la minoranza dei giuristi contrari.

Tutti o quasi tutti, infatti, consideravano assai improbabile che la Corte avrebbe deciso nel senso dell'ammissibilità del matrimonio omosessuale, in quanto la questione è stata caricata (non importa adesso quanto ciò sia stato fatto ad arte) di un significato politico pressoché esclusivo, che ha finito per far passare nelle retrovie il fatto che si tratti, come ogni altra questione posta di fronte alla Consulta, di una faccenda di leggi e di diritto.

Al di là delle argomentazioni sostenute da ciascuno per la tesi della fondatezza o dell'infondatezza dei particolari rilievi di costituzionalità presenti nei due atti con i quali le corti hanno posto la questione di fronte alla Consulta, e ancor di più al di là degli argomenti che ciascuno adduce per l'ammissibilità o per l'inammissibilità del matrimonio omosessuale nel nostro ordinamento, nessuno avrebbe scommesso sul fatto che una parola definitiva sarebbe stata pronunciata dalla Corte in merito.

Ciò che stupisce, quindi, non è che la Corte abbia dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità, ma il modo in cui lo ha fatto, cioè con una sentenza, la n.138 2010 (15 aprile), assai criticabile, sia sotto il profilo della tecnica giuridica, sia sotto il profilo della mera coerenza argomentativa. I passaggi argomentativi fallaci o discutibili della sentenza sono molti. Qui mi limito a segnalarne uno.

Uno dei cavalli di battaglia degli oppositori del matrimonio omosessuale è il richiamo alla "natura" presente nell'art. 29 della Costituzione, dove si sancisce che "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Secondo l'interpretazione proposta da costoro, il significato di questo articolo sarebbe quello di sancire sul livello costituzionale la c.d. "famiglia naturale", che sarebbe composta da una moglie, un marito e, possibilmente, da un certo numero di figli.

Va da sé che è sufficiente leggere con un minimo di attenzione, o di onestà, il testo dell'art. 29 per vedere che le cose non stanno così e che non c'è nessuna "famiglia naturale". Si parla, infatti, di "famiglia come società naturale", il che significa, nel linguaggio giuridico, società che le persone formano senza che vi sia necessità di norme giuridiche (diversamente da come accade, per esempio, nel caso delle società per azioni, che non sarebbero concepibili senza le norme giuridiche che le definiscono e che le disciplinano).

Il diritto, insomma, arriva dopo. E la Costituzione, in particolare, arriva per stabilire che i diritti "della famiglia" (in realtà diritti dei singoli che la compongono) sono riconosciuti a patto che questa "società naturale" abbia dato luogo a un matrimonio, secondo le norme del diritto civile. La Corte, infatti, non prende neppure in considerazione la tesi della "famiglia naturale" e ribadisce, a beneficio dei duri, l'ovvietà che il testo della norma costituzionale ha il significato di riconoscere, appunto, che le famiglie esistono anche senza che vi sia una norma giuridica che le definisce.

Fin qui, nulla da dire. Il punto critico, però, viene subito dopo, quando la Corte scrive: «Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi.

Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata». In particolare, dato che «la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea [costituente, N. d. A.], benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta [...] si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel senso tradizionale di detto istituto».

Proviamo a vedere che cosa c'è che non va in questo passaggio, cruciale, della sentenza. Se e è vero che i concetti di "famiglia" e di "matrimonio" non devono intendersi come cristallizzati nell'epoca in cui fu formulato l'art. 29, allora non si capisce per quale motivo l'evoluzione della società e dei costumi, pure richiamata dal testo della sentenza come elemento da tenere in conto per interpretare la norma, non sia qui idonea a ricomprendere nella definizione di "famiglia" che può accedere al "matrimonio" quella composta da due persone dello stesso sesso. La Corte chiarisce, però, che il ruolo dell'interpretazione non può spingersi fino a incidere "sul nucleo della norma", che indicherebbe il matrimonio "nel significato tradizionale".

Qui, come si vede, c'è qualcosa che non quadra. Il fatto che il costituente abbia preso in considerazione il matrimonio tradizionale è, con ogni probabilità, indubbio. Ma, allo stesso tempo, ciò non può essere inteso come un vincolo per l'interprete successivo, almeno non se si ammette, come fa la Corte, che i principi costituzionali sono contraddistinti da una intrinseca duttilità, data dal loro tener conto delle trasformazioni dell'ordinamento e dall'evoluzione "della società e dei costumi".

Questa evidente incongruenza (o le norme sono duttili e seguono l'evoluzione dei costumi o non lo sono) viene, però, corretta da un'immediata precisazione della Corte stessa, che chiarisce come la "duttilità" non possa giungere fino a "incidere sul nucleo della norma". Qual è questo nucleo? L'eterosessualità del matrimonio. E perché? Perché lo stabilisce il codice civile: «I costituenti, elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un'articolata disciplina nell'ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che [...] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso».

Ora, affermare che il codice civile stabilisca la diversità di sesso degli sposi perché il matrimonio sia valido è perlomeno azzardato. Il codice civile, piuttosto, non esplicita mai la condizione necessaria della diversità di sesso per un valido matrimonio, tant'è che le decisioni giudiziarie esistenti in merito hanno sempre ricavato questo elemento da un lavoro interpretativo.

Ma anche se si volesse sorvolare su questo punto - in realtà il centro dell'intera questione - il ragionamento esplicitato dalla Corte si rivela un controsenso, perché sfocia nella sola conseguenza logica possibile di subordinare la Costituzione al codice civile. Che, per essere precisi, è proprio il contrario di quello che, invece, si fa a rigor di diritto: non interpreto un articolo della Costituzione alla luce del codice civile, ma viceversa.

Se così non fosse, infatti, non si capisce quale sarebbe il ruolo di una corte costituzionale, e quale tipo di censura potrebbe esercitare sul diritto ordinario, se quest'ultimo diviene lo strumento al quale la norma costituzionale deve guardare per ricevere significato.

venerdì 30 aprile 2010

14 maggio 2010 - save the date!

Comunico che, così come precedentemente pre-annunciato, si svolgera' a Milano il prossimo 14 maggio un seminario tra i membri del Comitato nazionale Si lo voglio e il Collegio degli Avvocati, per discutere a fondo della sentenza della corte e degli sviluppi (giudiziari e non solo) della campagna per il diritto al matirmonio tra persone dello stesso sesso.

A breve i dettagli logistici. Intanto "save the date"

venerdì 23 aprile 2010

TESTO INTEGRALE DELLA SENTENZA DELLA C.COSTITUZIONALE SUL DIRITTO AL MATRIMONIO TRA PERSONE DELLO STESSO SESSO

Presidente AMIRANTE - Redattore CRISCUOLO
Udienza Pubblica del 23/03/2010 Decisione del 14/04/2010
Deposito del 15/04/2010 Pubblicazione in G. U.
Norme impugnate:
Artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis del codice civile.
Atti decisi: ord. 177 e 248/2009

SENTENZA N. 138
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d’appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E. O. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori termine);

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l’Associazione radicale Certi Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per C. M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E. O. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G. M. ed S. G., entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto del 3 luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta.

Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall’insieme delle disposizioni che disciplinano l’istituto medesimo, del quale tale diversità «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione cita anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007.

Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell’interno si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa.

Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost.

Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell’ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto né vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia.

Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)».

Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate non è possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, prosegue il rimettente, «non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».

Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro è quello di cui all’art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione.

Infatti, la famiglia è la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale.

Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2 Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si risolve in una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili.

L’unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe, però, di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo.

Il rimettente, poi, prende in esame l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio.

Pertanto, se la finalità perseguita dall’art. 3 Cost. è quella di vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a confronto con l’analoga situazione delle persone transessuali che, ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del 1985).

Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare, valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare.

Le opinioni contrarie al riconoscimento della libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perché si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni in danno delle donne.

Del resto, «per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive».

Il Tribunale di Venezia, in relazione all’art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non è quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di “diritto naturale”, bensì quello di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia.

Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare.

Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione d’invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti.

Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al quale valutare la costituzionalità del divieto.

Infine, il rimettente richiama l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe accolto una nozione di “vita privata” e di tutela dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire la piena realizzazione personale. È citata la sentenza Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario.

Il Tribunale di Venezia pone l’accento sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell’ordinanza).

Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni con civiltà giuridica affine a quella italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali.

Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa.

2. - I signori G. M. e S. G., si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio 2009.

Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioè che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualità dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica dell’istituto sul sistema civilistico.

La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Né si potrebbe dedurre che l’eterosessualità sia un carattere indefettibile dell’istituto matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla lettera del codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza i caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29 poiché tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l’unione solo fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti».

Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l’intera Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole “matrimonio” e “famiglia”, utilizzate nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da ciò deriva che, se nella nostra società anche due persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalità, ma fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma costituzionale.

La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2 Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no.

Richiamata la nozione di famiglia come “società naturale”, contenuta nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l’interesse protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato.

Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore dignità sociale e giuridica.

Tale stato di cose, però, non potrebbe impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali.

Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota l’istituto matrimoniale di una caratteristica (l’eterosessualità), che l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della famiglia legittima.

Né sarebbe possibile che “società naturale” sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe più istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975 l’impotenza non costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando sia materia di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell’età, tale attitudine più non hanno.

In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell’ambito dell’art. 29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare.

Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l’altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della libertà di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due libertà.

Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalità di quel diritto, nonché le prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono l’accento sull’esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione personale che è l’omosessualità. E ciò non in astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta sull’ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto più se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì di una mera prassi interpretativa.

Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio, una persona del proprio sesso».

Pertanto l’interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un limite irragionevole all’esercizio della libertà personale, disconoscendo la capacità della persona di scegliere ciò che è meglio per sé in una dimensione relazionale.

Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l’art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilità giuridica delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non può essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella nostra società, non più caratterizzata da un’omogeneità sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e l’inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o libertà fondamentale in virtù di una sua condizione personale. E ciò senza considerare la contemporanea violazione dell’art. 2 Cost., perché in tal modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla piena realizzazione di sé.

Inoltre, le parti private pongono l’accento sulla normativa comunitaria e internazionale già richiamata nell’ordinanza di rimessione.

Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi.

Ribadito che si è in presenza di una prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto al matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali.

Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso.

In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un’adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto dell’attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale.

3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.

La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso.

Il requisito della diversità del sesso, che si ricava direttamente dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose disposizioni dello stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale, l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione).

Il richiamo all’art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo né conferente.

Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo.

La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i “principi fondamentali” ed invece la collocazione dell’art. 29 nel titolo II tra i “rapporti etico-sociali” costituirebbero non soltanto l’argomentazione testuale, ma anche l’argomentazione più significativa per escludere la fondatezza dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la tutela delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di fatto.

Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché questo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi.

La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51».

La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori costituzionali.

Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, perché il problema della “identità di sesso biologico” in quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa.

Quanto all’art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», delinea una “relazione biunivoca” tra le nozioni in essa richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri analoghi».

Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione dell’art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma.

La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce all’art. 29 un contenuto mutevole con l’evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però caratterizzato “da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e distante dall’iniziale formulazione.

Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

La difesa dello Stato premette che l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali.

La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, perciò, a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali.

Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l’art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l’esercizio di tale diritto.

Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo riafferma che l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del relativo diritto.

In definitiva, al di là del carattere eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei, l’elemento che li accomuna sarebbe la “centralità del legislatore” nel processo d’inclusione delle coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle discipline di tutela.

Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al legislatore.

4. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti.

Dopo aver ricordato l’ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all’epoca nella quale sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si è verificata un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate».

In questo quadro, ad avviso della Corte trentina è necessario chiedersi se l’istituto del matrimonio, nell’attuale disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali.

L’interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In sostanza, poiché il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione della dignità umana (garantito costituzionalmente dall’art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso».

Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione, perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull’esito del giudizio a quo.

Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente infondata, perché «quanto sopra osservato non può essere superato da un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale, principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può prescindere da tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come granaio dello Stato».

Ad avviso della rimettente, «l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in forza dell’art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacità procreativa dei coniugi sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi».

5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia.

6. - Si sono altresì costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l’ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore Z. E. e O. M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e chiedendone l’accoglimento.

7. - In quest’ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l’Associazione radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante pro-tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell’Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale documentazione.

8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.

Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l’11 novembre 2009, l’ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste.

Essi osservano che l’interesse proprio e diretto ad intervenire è sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere rimessi in termini.

Inoltre, essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della legge».

In questo quadro, l’interesse diretto, specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già richieste e rifiutate dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo dell’inammissibilità, nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso.

Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle già in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione.

9. - In prossimità dell’udienza di discussione le parti private nei due giudizi di legittimità costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste.





Considerato in diritto

1. - Il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».

Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi.

Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un suo divieto espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza, rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost.

Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».

D’altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i princìpi costituzionali.

Ciò posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa.

2. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.

La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.

La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all’esame della questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia.

3. - I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.

4. - In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità.

5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002).

6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile.

In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano.

Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).

7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.

8. - L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.

Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.

Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.

9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.

Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».

La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).

Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.

Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.

Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.

Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.

Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.

In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.

Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.

La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1).

Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento.

10. - Resta da esaminare il parametro riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia).

Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.

Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.

Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».

A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».

In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».

Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».

Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.

Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.

Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.

Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi:

a) dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe;

b) dichiara non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le medesime ordinanze.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

Allegato:

ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza della Corte di appello di Trento depositata il 29 luglio 2009 (n. 248 R.O. del 2009);

rilevato che in tale giudizio è intervenuta l’Associazione Radicale Certi Diritti, in persona del Segretario e legale rappresentante p.t., con atto depositato il 3 novembre 2009;

che nel medesimo giudizio sono intervenuti, con atto depositato il 25 febbraio 2010, i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z., tutti di sesso maschile;

che né l’Associazione Radicale, né i signori di cui all’intervento in data 25 febbraio 2010 sono stati parti nel giudizio a quo;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007; ordinanza n. 414 del 2007);

che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo;

che, pertanto, sia l’intervento dell’Associazione Radicale Certi Diritti sia quello spiegato con l’atto depositato il 25 febbraio 2010 devono essere dichiarati inammissibili, indipendentemente dal carattere tardivo di quest’ultimo (ordinanza n. 119 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione Radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente