martedì 20 luglio 2010

Dopo la sentenza della Corte costituzionale il silenzio della politica

Commento dell'avv. prof. Marilisa D’Amico
Ordinario di Diritto costituzionale, Università Statale di Milano


La sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale italiana costituisce un passo determinante, anche se non definitivo, in tema di riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali e, anche, del fondamentale “diritto al matrimonio”.

Di questa decisione sta circolando una lettura riduttiva che sosterrebbe, a mio avviso sbagliando, che secondo la Corte il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso potrebbe essere raggiunto soltanto con la revisione dell’art. 29 Cost. il quale non si presterebbe ad una lettura “evolutiva”.

Questa interpretazione della sentenza n. 138 del 2010 non è accettabile, per tre ordini di motivi:

1. nell’impianto della decisione la lettura degli artt. 3 e 29 Cost., basata sull’assunto che l’originaria previsione dell’art. 29 Cost., pur conoscendo il fenomeno dell’omosessualità, ha inteso disciplinare soltanto il matrimonio fra persone eterosessuali, costituisce un punto molto debole del ragionamento. Sembra simile a quello che la Corte statuì, nella sentenza n. 421 del 1995, bocciando le cosiddette quote rosa; su quel principio sbagliato, la Corte è ritornata nella sentenza n. 49 del 2003, che costituisce una vera overruling. Similmente, nulla impedirebbe alla Corte, in futuro, di riconoscere la debolezza della sua interpretazione soltanto “storica” dell’art. 29 Cost. Con questo metro, allora, si sarebbe potuta dichiarare costituzionalmente illegittima anche la previsione del divorzio.

2. La stessa Corte costituzionale, basandosi sull’art. 2 Cost., e sull’art. 117 Cost. (reso più forte dalla recente sentenza della Corte costituzionale austriaca), ha riconosciuto non solo il valore costituzionale della “coppia omosessuale”, ma ha definito come necessario l’intervento del legislatore per una disciplina organica e si è riservata il diritto ad intervenire a correzione di tutte le specifiche violazioni di specifici diritti. Questa decisione costituisce un monito al legislatore molto forte: non si parla di facoltà, ma di necessità di intervento.

3. Il segnale, da parte della Corte, è chiarissimo: di fronte al vuoto normativo, che pone l’Italia in una situazione del tutto unica rispetto agli altri Paesi europei (Portogallo, Austria, … ma per uscire dall’Europa, anche Argentina), la Corte opportunamente rinvia al ruolo del legislatore e, dunque, della politica nel dotarsi di una disciplina organica. Sarà comunque il legislatore, nella sua discrezionalità, a decidere in ordine ad una piena equiparazione, anche nel nome “matrimonio” delle unioni omosessuali rispetto a quelle eterosessuali.

Il terreno, però, è oggetto di profonda evoluzione, come testimonia anche la recentissima decisione della Corte Europea (Schalk e Kopf v. Austria, del 24 giugno 2010). La Corte non si limita a rinviare genericamente alla politica, ma si ritaglia uno spazio di intervento dinnanzi a situazioni specifiche: questo rende il monito, a mio avviso, ancora più cogente.

In conclusione, chi cerca ancor oggi, anche in buona fede, letture ulteriori e diverse della sentenza, non fa altro che perdere tempo prezioso e ignora l’indicazione chiara e inequivocabile del giudice costituzionale: la necessità, non più procrastinabile, di una legge.

La “via giudiziaria”, nel riconoscimento e nella tutela dei diritti, non può e non deve sostituirsi alla “via politica”, ma soltanto offrire sostegno e aiuto quando quest’ultima si dimostri lenta, insufficiente o inadeguata, come sempre più spesso in Italia succede.

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giovedì 15 luglio 2010

ARRIBA ARGENTINA!

ARGENTINA, IL MATRIMONIO GAY E’ LEGGE.
ISTITUZIONI HANNO DELIBERATO LAICAMENTE,
NONOSTANTE LE INAUDITE PRESSIONI CLERICALI.

Enzo Cucco,Giuseppina La Delfa e Maurizio Cecconi, portavoci del Comitato,
in merito alla legge approvata questa notte dal Senato della Repubblica di Argentina.


“L’Argentina, paese dove il 91% della popolazione si dichiara cattolico, s’è convertito all’alba di oggi nel primo stato del Sudamerica – il decimo nel mondo – che riconosce alle persone omosessuali il diritto al matrimonio civile e, contestualmente, alle adozioni. Il dibattito finale al Senato della Repubblica, durato oltre 15 ore, è stato trasmesso interamente dalla televisione, rappresentando un modello di discussione democratica e di decisione laica. Infatti, nonostante le inaudite pressioni delle gerarchie della Chiesa Cattolica, arrivate persino ad organizzare manifestazioni di piazza che hanno creato tensione ed incidenti, le massime Istituzioni argentine hanno deliberato tenendo presente il principio comune di uguaglianza di fronte alla legge”, così Enzo Cucco, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”.

Per Giuseppina La Delfa, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”, “la decisione dell’Argentina rappresenta un passo in avanti storico. Come ha ricordato María Rachid, rappresentante della Federazione Argentina di Lesbiche, Gay, Bisessuali e Trans (FALGBT), l’acceso al matrimonio implica anche il riconoscimento di tutti quei diritti che al matrimonio sono legati. In particolare, quello alle adozioni. L’uguaglianza di fronte alla legge è la premessa indispensabile per raggiungere l’uguaglianza sociale”.

“Un giorno dopo l’anniversario della Rivoluzione Francese, che segnò la fine del potere dell’aristocrazia e del clero, l’Argentina ci regalo una conquista di civiltà, ottenuta con uno sforzo esemplare, grazie all’impegno del movimento LGBT argentino e alle posizioni laiche della maggioranza delle forze politiche”, così Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato “Sì, lo voglio!”, che conclude: “Mentre in Argentina si apre ai matrimoni gay, in Italia siamo fermi alle esternazioni fascio-clericali di Giovanardi e del Governo Berlusconi. E’ tempo, anche per il nostro paese, di una nuova stagione di libertà e di profondo e radicale cambiamento”.


COMITATO "SÌ, LO VOGLIO!"
per il riconoscimento del diritto
al matrimonio civile alle persone omosessuali

Comunicato stampa
Giovedì 15 Luglio 2010

STEFANO RODOTA SU MATRIMONI GAY

Matrimoni gay e doveri del Parlamento
Stefano Rodotà
la Repubblica, 15 luglio 2010

In tutto il mondo l’ agenda dei diritti si compone e si scompone. Si discute della libertà di espressione su Internet. I diritti dei migranti sono al centro di un importante intervento di Obama, mentre in Europa producono manifestazioni di xenofobia e razzismo che influenzano le elezioni nazionali. La crisi economica incide sui diritti dei lavoratori, impone condizioni che violano il principio del “decent work”, della dignità del lavoro. Le ultime notizie dall’ Islanda aggiungono un altro paese a quelli che già hanno riconosciuto il matrimonio omosessuale, mentre in Italia la comunità gay sta conoscendo inedite polemiche. A queste reagisce un esponente autorevole di questo mondo, Aurelio Mancuso, affermando che «di queste beghe la comunità non vuol sentire parlare, la comunità vuole diritti», aggiungendo che si tratta di una richiesta rivolta a tutte le forze politiche, senza distinzioni. Una mossa “politicista” o una giusta sollecitazione istituzionale? Il Parlamento italiano è inadempiente, ed è bene che sia richiamato ai suoi doveri. Con una recentissima sentenza, infatti, la Corte costituzionale ha ribadito la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali, poiché siamo di fonte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’ articolo 2 della Costituzione. Da questa constatazione la Corte trae una conclusione importante: alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Sono parole impegnative: un “diritto fondamentale” attende il suo pieno riconoscimento.

Non è ammissibile, dunque, la disattenzione del Parlamento, perché in questo modo si privano le persone di diritti costituzionalmente garantiti. Qualcuno, al Senato e alla Camera, porrà con la dovuta durezza questa domandae chiederà che si riapra almeno la discussione sulle unioni di fatto? Ma la Corte va oltre. Pur ribadendo che l’ attuale disciplina costituzionale del matrimonio non permette di ricomprendere al suo interno la disciplina delle unioni omosessuali, fa due affermazioni rilevanti. La prima è di carattere generale. Si sottolinea che le norme attuali, che vincolano il matrimonio alla differenza di sesso, non possono essere superate attraverso una interpretazione dei giudici costituzionali. Questo vuol dire che, preclusa al giudice, la via del mutamento dell’ articolo della Costituzione sul matrimonio, per renderlo compatibile con le unioni omosessuali, potrebbe essere percorsa dal legislatore. Si può obiettare che una revisione costituzionale in una materia così scottante appare improbabile. E qui interviene la seconda affermazione, che mostra come non sia corretto prospettare una incompatibilità assoluta tra il modello del matrimonio tradizionale e quello dell’ unione omosessuale. È sempre la Corte che parla: «Può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’ argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare “contiguità” tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto. Proprio perché i giudici costituzionali sono stati guidati da tanta consapevolezza, ci si poteva aspettare una attenzione maggiore per il modo in cui il tema è affrontato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’ Unione europea. Qui si coglie una netta discontinuità.

Nell’ articolo 21 si vieta ogni discriminazione basata sulle tendenze sessuali. E, soprattutto, nell’ articolo 9 si stabilisce che «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’ esercizio». La distinzione tra “il diritto di sposarsi” e quello “di costituire una famiglia” è stata introdotta proprio per consentire la costituzione legale di unioni distinte da quelle tra persone di sesso diverso, dunque anche quelle tra omosessuali. E il passo avanti rappresentato dalla Carta diventa ancor più evidente proprio se si fa un confronto con quel che dispone l’ articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell’ uomo del 1950, dov’ è scritto che «uomini e donne hanno diritto di sposarsi e di costituire una famiglia secondo le leggi nazionali che disciplinano l’ esercizio di tale diritto». Confrontando questo articolo con quello della Carta, si colgono differenze sostanziali. Nella Carta scompare il riferimento ad “uomini e donne”. Non si parla di un unico “diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, ma si riconoscono due diritti distinti, quello di sposarsi e quello di costituire una famiglia. La conclusione è evidente. Nel quadro costituzionale europeo, al quale l’ Italia deve riferirsi, esistono ormai due categorie di unioni destinate a regolare i rapporti di vita tra le persone. Due categorie che hanno analoga rilevanza giuridica, e dunque medesima dignità: non è più possibile sostenere che esiste un principio riconosciuto – quello del tradizionale matrimonio tra eterosessuali – ed una eccezione (eventualmente) tollerata – quella delle unioni omosessuali. In un paese che onora la civiltà della discussione e rispetta i diritti delle persone, queste dovrebbero essere le linee guida per il legislatore. Poiché, invece, questi temi sono ormai oggetto della prepotenza ideologica di chi vuole imporrei propri valori, definendoli non negoziabili, può essere utile ricordare che il mondo cattolico non è riducibile alle gerarchie vaticane e a chi se ne fa portavoce. Nel 2008 la rivista dei gesuiti, Aggiornamenti sociali, ha pubblicato una serie di scritti sulle unioni omosessuali, con i quali si può dissentire su alcuni punti, ma che prospettano una conclusione assai impegnativa.

Al politico cattolico si dice che «non spetta al legislatore indagare in che modo la relazione viene vissuta sotto altro profilo che non sia quello impegnativo dell’ assunzione pubblica della cura e della promozione dell’ altro». E si sottolinea che, una volta riconosciuto il valore sociale della convivenza, «risulterebbe contrario al principio di eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza morale prima che garanzia costituzionale». Non si potrebbe dire meglio. Ma si deve aggiungere che nessuno può disinteressarsi di questo tema considerandolo affare di altri. Intervistata dal New York Times, Martha Nussbaum ha detto: «Se mi risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso». Anche la più intima tra le decisioni non può farci distogliere lo sguardo dal vivere in società, dalla condizione e dai diritti di ogni altra persona, lontana o vicina che sia.

venerdì 2 luglio 2010

IL COMITATO SULLE DICHIARAZIONI DI GIOVANARDI

FAMIGLIA E' MODELLO PLURALISTICO.
UNITA' D'ITALIA MINACCIATA DALL'EVERSIONE
COSTITUZIONALE DI PDL E LEGA NORD


Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato,
in merito alle dichiarazioni del Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Carlo Giovanardi.



"Il 15 Aprile scorso la Corte Costituzionale, con l'importante sentenza n. 138/2010, ha imposto il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali. Chiarissime, in questo senso, le parole della Corte: "Per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri". Le dichiarazioni del Sottosegretario Giovanardi sono da considerarsi, dunque, come parole a vanvera", così Maurizio Cecconi, portavoce del Comitato, che conclude: "A minacciare l'unità della Repubblica Italiana è l'impunita eversione costituzionale del PDL e della Lega Nord. Chi, come Giovanardi, guida le Istituzioni senza conoscere le sentenze del nostro massimo organo di garanzia, è un pericoloso ubriaco al volante del Paese".


Maurizio Cecconi
+39 349 808 48 99

Comitato "Sì, lo voglio!"
per il riconoscimento del diritto
al matrimonio civile alle persone omosessuali

Comunicato stampa
Venerdì 02 Luglio 2010